Tuttavia i manager dei gruppi bancari islamici hanno ben presente la concorrenza e devono presentare al consumatore un prodotto competitivo e conveniente per gli stessi clienti. Il business resta legato alla logica dell’interesse senza “interessi” e i consumatori alla fine si comportano secondo la scelta razionale del miglior profitto. La caratterizzazione religiosa attrae i puristi della fede che scelgono questi istituti per i loro prestiti, i mutui per le case, per conservare i propri risparmi e investire in titoli di Stato (Sukuk). E’ un mercato minoritario rispetto al sistema convenzionale ma comunque in forte crescita soprattutto negli Emirati Arabi Uniti, Barhein, Malysia e Indonesia.
Nel 2007 il giro d’affari delle banche islamiche è stato stimato intorno a 1 triliardo di dollari. Particolarmente fecondo è il mercato indonesiano visto che parliamo di un Paese che conta 215 milioni di seguaci dell’Islam. In Malaysia gli istituti bancari islamici non superano il 12 per cento del mercato interno a fronte di una popolazione non-islamica che è pari al 52% del totale. Il gruppo saudita Al-Rajhi Bank – il più grande istituto islamico del mondo che però non offre servizi di microcredito nella penisola arabica – è sbarcato a Kuala Lumpur con un piano di marketing molto competitivo. I sauditi mirano alle etnie cinesi che rappresentano gran parte della borghesia produttiva asiatica. “Valore e valori” è uno spot tanto commerciale quanto trasversale.
I Fondi Sovrani (Sovereign Weath Founds), che sono i portafogli statali gonfi di petrodollari delle monarchie arabe del Golfo, hanno investito direttamente nell’acquisto di quote societarie di grandi firme multinazionali statunitensi ed europee, istituti di credito compresi. L’americana Citygroup ha ricevuto una iniezione di liquidità pari a 7,5 miliardi di dollari dalla Abu Dhabi Investment Authority. Vista la gravità della crisi pochissimi, in Occidente, hanno rinunciato ai fondi stranieri pur di salvarsi dalla bancarotta. Anche l’inglese Barclays Bank ha accettato una iniezione di 9,4 miliardi di dollari provenienti dai paesi del Gulf Cooperation Council – Bahrein, Kuwait, Oman, Quatar, Saudi Arabia e gli Emirati Arabi Uniti.
Rimane però una diffidenza diffusa sugli investimenti dei Fondi Sovrani nelle firme occidentali. L’ultimo quarto di secolo è stato caratterizzato da una forte diminuzione della presenza dello Stato nell’economia e dalla privatizzazione di molte società ma adesso siamo di fronte a un’inversione di tendenza. Gli attori economici sono diventati Stati e governi che entrano con investimenti cross-border nel tessuto economico di altre nazioni. Gli analisti hanno ribadito più volte che questi investimenti sono una arma a doppio taglio. Potrebbero essere usati come una rete di relazioni per un indiretto condizionamento politico del Paese in cui agiscono i Fondi Sovrani.
L'allarme è tanto forte quanto più grave e prolungata si fa l'agonia dei mercati internazionali. E il trasferimento di grandissime risorse finanziarie dall'Occidente alle petrocrazie, con il conseguente reimpiego della ricchezza accumulata (sempre nei paesi occidentali) tramite diversi strumenti finanziari, portano con sé il rischio di attività poco trasparenti. Per esempio il riciclaggio di denaro sporco o il finanziamento indiretto di gruppi estremisti islamici.
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Dalla Mecca con Furore
19/11/2008 - 10:31
Banche e fondi sovrani: così l'Islam invade l'Occidente Mondo di Marta Brachini Nel settembre del 2007 il portavoce di "HSBC Amanah, la filiale indonesiana del gruppo bancario inglese, dichiarava: "Sharia Banking doesn't only have to b
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